| Molto molto interessante:
La terminologia sconcia nel dialetto romanesco
In un contesto linguistico che privilegia il ricorso alla frase volgare e colorita, una posizione di rilievo è ovviamente assunta dal frequente ricorso, nel vernacolo romanesco, al richiamo di parti anatomiche e sessuali, usato anche in questo caso senza alcun preciso riferimento al significato intrinseco (comunque volgarizzato) del termine. Abbiamo così “ciccia ar culo!” (=”non me ne importa niente”) e “bucio de culo”, anche semplicemente “bucio” o “culo”, sempre traducibile con “fortuna”, spesso accompagnato dall’inequivocabile gesto dell’indice e pollice aperti delle due mani, che precisano la maggiore o minore quantità di buona sorte in funzione dell’ampiezza della circonferenza che suggeriscono. Da notare che lo stesso significato verbale viene assegnato anche al solo gesto.
L’adulatore è un “leccaculo”, e quando subisce passivamente una prepotenza o si sottomette pavidamente alle situazioni o alle persone, magari scendendo a compromessi poco dignitosi, si “appecorona” (=si mette carponi). Un individuo particolarmente sfrontato e dotato di faccia tosta e quindi privo di vergogna, ha la “faccia com’er culo” che dovrebbe pertanto provvedere a nascondere. Il dialetto romanesco, che non si preoccupa di cercare sinonimi per frasi “indecenti”, mostra di possedere invece una grande dose di fantasia nel trovare forme alternative a concetti sconci, che lasciano però inalterata l’immagine originaria; così, lo stesso significato della frase precedente viene illustrato da locuzioni come “fasse er bidè ar grugno”, “mettese le mutanne in faccia” o “soffiasse er naso co’a cart’iggienica”. Sempre sullo stesso soggetto troviamo “pijà p’er culo” (=prendere in giro), “arzasse cor culo pell’insù” (=svegliarsi di cattivo umore), “vàttel’ a pijà ‘n der culo” (come “va’mmor’ammazzato!”) e “rodimento de culo” (=nervosismo, arrabbiatura). Di quest’ultima espressione esiste una variante estremamente raffinata, a dimostrazione dei livelli di fantasia e disinibizione che il popolano romano è in grado di raggiungere nella trasposizione concettuale del vernacolo: “che te rode, la piazzetta o er vicolo der Moro?”. A Roma, nel quartiere Trastevere, il vicolo o via del Moro è una strada stretta e piuttosto poco luminosa che collega tra di loro piazza Trilussa e piazza Sant’Apollinare; la frase precedente è pertanto una trasformazione abbastanza intuitiva del concetto che verrebbe altrimenti espresso con un '“che te rode, er culo o er bucio der culo?”.
Il termine “cazzo” viene usato soprattutto come rafforzativo in frasi esclamative (“ma che cazzo stai a ffà!”) , dove si esprime anche un accenno di disappunto, e un po’ meno nelle interrogative (“’ndo cazzo stai a annà?” = “dove vai?”). Usato da solo è un’esclamazione che esprime sorpresa e meraviglia. Altro frequentissimo significato del vocabolo è quello di “assolutamente nulla” (“nun capisci 'n cazzo!”, “nun me frega 'n cazzo!”, ecc.). Varianti del termine sono la “cazzata!”, col preciso significato, derivato dal precedente, di “sciocchezza”, “stupidaggine”, “roba di poco conto”; “cazzaro”, chi fa o dice cazzate; “incazzatura” (=arrabbiatura); “cazzaccio” o “cazzone”, individuo stupido o insignificante. Quest’ultima lettura viene anche associata, in modo molto più colorito, all’epiteto “testa de cazzo”, che assume però una connotazione più pesante, al limite dell’insulto.
Abbondante anche l’uso e le relative variazioni su “cojone”, propriamente individuo stupido e incapace, da cui “a cojonella” (=per scherzo, per gioco), “cojonà” (= prendere in giro, con una sfumatura di significato meno forte di “pijà p’er culo”), “me cojoni!” (=perbacco!, addirittura!, davvero!), da non confondere con la forma verbale precedente, che assumerebbe il significato di “mi stai prendendo in giro!”, “rompicojoni” (=rompiscatole, fastidioso, noioso), “un par de cojoni” (=assolutamente nulla) e la minaccia “nun rompe li cojoni” rivolta a chi sta recando fastidio e disturbo al limite della sopportazione. A dimostrazione di quanto la terminologia grossolana del dialetto romanesco sia svincolata dal significato intrinseco del vocabolo si pone la frase “avecce li cojoni” che è indifferentemente attribuito a uomini e donne nel senso di persona estremamente brava, preparata o dotata in un particolare settore.
Il linguaggio vernacolare non risparmia ovviamente gli attributi femminili. E così: “fregna!” esclamazione di meraviglia ma anche “complimenti!”, “fregnaccia” (=sciocchezza, stupidaggine), “fregnone” (=ingenuo, sempliciotto, ma anche nel senso di troppo buono), “fregnacciaro” (=che le spara grosse, che dice stupidaggini), “fregno” o “fregno buffo” (=coso, attrezzo, oggetto strano) e “avecce le fregne” (=avere i nervi tesi, essere "incazzato").
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